
A volte, nella mia pratica clinica, mi è capitato di confrontarmi con pazienti che esprimevano giudizi nei confronti di colleghi e, più nello specifico, dicevano:<<quello non è un medico>> facendo riferimento ad una particolare esperienza vissuta a seguito della comparsa di un disagio o di un problema di salute e al conseguente incontro e confronto con il medico.
Allora mi sono chiesto: <<Chi può dirsi medico?>>.
Partiamo dall’etimologia; il termine medico deriva dal latino medicus, a sua volta derivato da medeor ovvero “curo le malattie”. Stando all’etimologia chiunque abbia la capacità di curare le malattie è un medico, tuttavia ai giorni nostri, in una società strutturata da regole e consuetudini la domanda di cui sopra non può avere una risposta così semplice…e vediamo il perché.
Può dirsi medico una persona che cura un malato, o solo chi lo fa nel rispetto assoluto del metodo scientifico?
E’ medico una persona che applica delle semplici conoscenze empiriche che magari si tramandano da tempo e che hanno sempre dimostrato una efficacia?
Aver conseguito una laurea in medicina e chirurgia e aver superato l’esame di stato può bastare per essere un medico?
E coloro che hanno la laurea e l’abilitazione e non praticano la medicina cosiddetta ufficiale o allopatica, sono anche loro medici?
E al contrario coloro che hanno i titoli suddetti e che non praticano alcuna clinica ma si occupano esclusivamente di ricerca, magari su cavie di laboratorio, sono o non sono medici?
Il quesito a mio parere non può essere sciolto nel solo ambito della disciplina medico scientifica.
Partiamo col dire che, almeno nella nostra società, per essere medico è necessario seguire un corso di studi, ottenere una pergamena e un’abilitazione alla professione; a mio parere però questa è solo una condizione necessaria, non sufficiente. Perché non è sufficiente prescrivere farmaci dopo una telefonata con il paziente e fargli trovare la ricetta nella segreteria dell’ambulatorio; non è sufficiente compilare una impegnativa dematerializzata e inviarla via mail al paziente che lamenta la comparsa di un mal di schiena senza un approfondito esame clinico e senza aver eseguito manovre specifiche per iniziare a comprendere la natura del disagio riferito.
Ricordo che il dott. M. R. all’inizio della carriera di mia moglie, anch’ella collega, gentilmente le affittò una stanza del suo ambulatorio, e durante l’inverno sia mia moglie, sia le pazienti lamentarono una temperatura rigida all’interno dei locali dello studio. Quando facemmo presente questo al collega M.R. bellamente ci rispose:<<Preferisco che nello studio faccia freddo così i pazienti non si spogliano!>>, come a sottindendere che grazie a questo disagio, velocemente avrebbero lasciato lo studio, liberandolo dall’incombenza in fretta.
Di recente una mia paziente, la sig.ra M.C., sottoposta ad emicolectomia destra in urgenza per neoplasia del colon complicata da perforazione con peritonite, dopo le dimissioni è stata invitata a colloquio con la collega oncologa V.R., la quale ha posto indicazione ad una chemioterapia adiuvante. La sig.ra M.C. volendo comprendere appieno la necessità di una terapia del genere, ovviamente caratterizzata da importanti effetti collaterali, ha posto alcune domande. La risposta della collega V.R. è stata:<<signora, lei pensi a chiacchierare con le sue amiche e a fare shopping, alla terapia ci pensiamo noi>>.
Un collega di esperienza, il dott. S.B., accompagnò la moglie per un mieloma dall’onco-ematologo il dott. L.P.. Il collega S.B. il giorno dopo la visita mi riferì che il dott. L.P. trascorse tutta la mezz’ora di visita dietro alla scrivania guardando gli esami e scrivendo al computer, senza mai voltare lo sguardo verso di lui o verso la moglie. Quando il dott. S.B. riferì al collega ematologo che la moglie presentava frequentemente un dolore in ipocondrio destro di possibile pertinenza epatica, lo specialista senza neanche alzare lo sguardo riferì che avrebbe dovuto rivolgersi a un’internista per la valutazione di quel problema.
Questi sono solo alcuni esempi di come alcuni colleghi esercitano la professione e lascio a voi lettori rispondere alla domanda se i dottori M. R., V.R. e L.P., pur con la pergamena e l’abilitazione, pur con le migliaia di esami valutati, di prescrizioni eseguite, possono essere chiamati medici.
Per me no.
Anche per il padre della medicina occidentale, Ippocrate di Kos (460-377 a.C.), probabilmente costoro non possono essere chiamati medici.
Egli infatti riteneva che il medico mai deve concentrare l’attenzione ad una parte limitata del corpo bensì deve sempre occuparsi di tutto l’organismo e di come questo reagisce alla patologia in corso, senza mai dimenticare che l’oggetto dell’indagine non è la manifestazione morbosa ma le persone con le rispettive “phisis”, ovvero le costituzioni individuali, inserite in un contesto ambientale che è sempre differente.
Ne consegue che ci sono aspetti imprescindibili per professare l’arte della medicina: innanzitutto l’empatia ovvero la capacità di entrare in relazione con chi sta difronte; l’attitudine all’ascolto, necessaria per comprendere appieno il disagio vissuto dal paziente; una buona capacità di miscelare il pensiero analitico con il pensiero euristico in modo da esaminare i dati provenienti dall’esame clinico e dai test diagnostici senza dimenticare il proprio intuito e la propria esperienza.
Sono numerosi i colleghi degni dell’appellativo di medico, tuttavia osservo una spiacevole tendenza di alcuni medici ad affrontare la propria professione in modo routinario e distaccato, a volte perché inseriti in un sistema sanitario organizzato come una catena di montaggio dove ognuno si occupa del proprio pezzettino di corpo tralasciando la visione d’insieme, a volte perché semplicemente stufi di fare il proprio lavoro o impazienti di terminarlo.
Il miglior medico è anche filosofo, studioso dell’umano, ed è compagno della temperanza e della verità, altrimenti non è altro che un lavoratore qualunque, magari spacciatore di droghe legali, che utilizza la propria posizione per fini opposti a quelli per i quali l’arte medica è nata.